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Castrovillari, 2 Giugno 2014

Convince decisamente fino a contagiare benevolmente l’ottimismo di fondo con cui il giovane ricercatore F. Lo Giudice tratta, già fin dall’ introduzione, nel suo libro “Cambiare il sud per cambiare l’Italia, quella perdurante incognita che a distanza di così tanto tempo da cui si cominciò a parlare di “questione meridionale”, ancora oggi riguarda il Mezzogiorno d’Italia. E di “questione meridionale” si cominciò a parlare quasi subito dopo il 1861, principalmente in relazione al brigantaggio e ai problemi politici e sociali che esso poneva. All’atto dell’unificazione prevalse la convinzione che tra l’area padana e l’area meridionale le differenze fossero dovute unicamente alle più sfortunate vicende politiche del Mezzogiorno. E’ ormai noto che contro i nostalgici della secolare indipendenza napoletana, che attribuivano all’Unità i mali del Mezzogiorno, Giustino Fortunato affermò con fermezza che, se non si fosse legato allo Stato nazionale italiano, il Mezzogiorno non avrebbe potuto essere sottratto a un destino africano o balcanico. Oggi Nel 21° sec., era della globalizzazione e dei mercati interdipendenti, l’ottica necessariamente si allarga e nello stesso tempo si fa più selettiva. I mercati di riferimento non sono più quelli locali o nazionali, ma il mercato europeo e la sua apertura verso l’Est e verso il Mediterraneo. Inoltre, le logiche dello sviluppo possibile sono sempre più strettamente intrecciate alla geomorfologia del territorio, alla valorizzazione delle energie endogene, alla nascita e alla crescita dei distretti, alla messa in rete dei progetti. Si fa strada un meridionalismo inedito, più consapevole e meno diretto dall’alto, più attento alle caratteristiche positive che il Sud può riscoprire, a quelle potenzialità così peculiari che la società civile delle regioni meridionali nutre nel suo seno. E’ stata accantonata l’idea che il Mezzogiorno abbia bisogno di politiche ‘speciali’. Si ritiene, al contrario, che servano diverse modulazioni territoriali, non solo per il Mezzogiorno in vero, di una accorta politica nazionale, in un’Italia che, per la sua posizione geografica, è un ponte naturale fra l’Europa e il Mediterraneo. Per Lo Giudice sul Sud d’Italia, o dovremmo dire anche sul Sud d’Europa, si può ricominciare a scommettere, soprattutto, aggiungeremmo, dopo che il tentativo di emulare la tipicità dello sviluppo industriale del nord- e per certi versi ciò è quasi una fortuna-può dirsi miseramente fallito. Ed il perché è presto detto: uno sviluppo che non rispetti la vocazione naturale di un territorio, quella vocazione che per le regioni meridionali si configura soprattutto come turismo culturale qualificato legato alla bellezza ed alla storia dei luoghi, ancora per lo più ameni e fonte della visione di paesaggi d’ incontrastata bellezza ( e ciò richiede cospicui investimenti nel settore dei trasporti e dei servizi ancora purtroppo carenti), così come nel settore della produzione enogastronomica ed artigianale di qualità, per cui il Sud d’Italia è famoso in tutto il mondo, ma senza che il made in Italy venga completamente tutelato attraverso il rispetto delle leggi a sostegno della sua unicità ed incontraffabilità, uno sviluppo-dicevamo- che non tenga conto di tutto questo è destinato a fallire. E che dire del settore della produzione culturale, in cui il Sud si distingue per l’alto tasso di dirigenti qualificati e di ottima preparazione scolastica che tuttavia sono impiegati altrove a produrre in contesti economici più avanzati e garantisti? D’altra parte, le profonde trasformazioni sociali che hanno modificato radicalmente l’assetto socio-politico delle nostre regioni non ammettono ulteriori proroghe. I giovani meridionali, in particolare, sono sempre più indotti alla migrazione culturale, i paesi d’origine si svuotano, i borghi s’intristiscono, cresce ogni anno la media dell’età anagrafica, anche in seguito al decremento delle nascite (cit. Franco Garelli che su La Stampa titolava qualche tempo fa “Italia: la Repubblica dei nonni”) oggi più che mai sottolineato dall’attuale severa congiuntura economica. Per non parlare del 22.o rapporto I.S.T.A.T. sulla forte recessione e la fragile difesa del nostro Paese. Qualche dato può servire per fotografare all’istante la gravità delle cose: 100.000 i giovani che hanno lasciato l’Italia negli ultimi cinque anni per cercare lavoro; 26.000 i giovani all’estero dal 2012; 3.0000.000 le famiglie in serio disagio economico, costrette a tirare avanti senza reddito o con una sola pensione per l’intero nucleo; 6.000.000 e 300.000 tra disoccupati e persone in cerca d’impiego; 1.427.000 quelli che non cercano nemmeno più un lavoro; 2.435.000 i “neet”, giovani che né lavorano, né studiano; 515.000 i bimbi iscritti all’anagrafe, 12.000 in meno rispetto al 1995, anno del minimo storico; 1.500.000 i giovani che sono tornati a vivere coi genitori. Servono immediatamente, sempre secondo l’I.S.T.A.T. oltre quindici miliardi di Euro per far fronte a questa emergenza. Il libro di F. Lo Giudice ci pone, in fondo, di fronte ad una domanda cruciale, cui l’attuale classe politica farebbe bene ad interrogarsi seriamente: Come potranno difendersi le regioni del Sud Italia dal lento ma inesorabile declino? Come possiamo fare per invertire la rotta e creare, qui ed ora, occasioni di sviluppo ed opportunità economiche, ripartendo proprio dal Sud? Lo Giudice invita a trovare la risposta endogena che si origini dall’interno delle coscienze e delle consapevolezze e che coincide con il ritrovato protagonismo della gente del Sud, con la volontà di riscatto che emancipi dal bisogno e dall’incuria. Piace e convince anche la capacità di questo giovane ricercatore di non cullarsi sugli allori del passato (il leggendario Regno delle Due Sicilie con i suoi illustri primati che l’attuale produzione editoriale ha posto e per certi versi giustamente in primo piano a rivendicare le qualità del “regno perduto”, cit. Antonino Ballarati, Il Regno perduto, Quando il Sud era l’Italia, Iuppiter), ma di affrontare il nodo politico cruciale: le contraddizioni stesse del sistema che tende a “preservare più che a risolvere le disparità e gli squilibri sociali e territoriali esistenti”. E ci vuole coraggio ed onestà intellettuale, e lo Giudice li possiede entrambi, ad affondare il bisturi nella piaga infettata da parassitismi ed attendismi che rischiano di portare alla necrosi il tessuto sociale. Il dissesto idro-geologico, l’imbarbarimento dei rapporti umani, l’elevato indice di dispersione scolastica in alcune regioni meridionali, il malaffare ormai radicato in una imprenditorialità fruttificamente diabolica, si perdoni il quasi ossimoro, la connivenza del sistema politico, gli appalti truccati e pilotati, soprattutto l’inerzia che alimenta un disfattismo mascherato da fatalismo e cupa rassegnazione di gattopardesca memoria. Tanti sono i fili che si dipanano da questa Italia unita, ma non ancora coesa e realmente solidale e cooperativa, come tra l’altro ben illustrato dalle tavole artistiche di Placido Malagrinò, che corredano il saggio di F. Lo Giudice impreziosendone il racconto ed accompagnando anche visivamente la scrittura. Commovente, poi, risulta la narrazione di quello che potremmo definire “il diario di formazione politica” del giovane Lo Giudice, il quale appena ventiseienne sente lo sdegno dei giusti, degli spiriti realmente liberi ed appassionati alla Donna più seducente che si conosca: la Giustizia. Essa lo accompagna mentre scrive quella bellissima lettera al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, quasi a “bacchettarlo” di non aver posto in giusto rilievo lo spirito di quella sacrosanta insurrezione popolare che ha portato le genti di Calabria ad insorgere dopo il delitto del vicepresidente della Regione Francesco Fortugno. E che dire delle voci di dolore e di vibrante protesta dei giovani locresi schierati a viso aperto contro la ‘ndrangheta? Questo si chiede F. Lo Giudice, questo chiede ad un sistema silente, persino alla più alta carica dello Stato, cui non fa specie l’immagine di un Sud e di una Calabria “sciancati” e “incaprettati”, ma che non spendono parole di fronte alla coralità della protesta civile di larga parte del tessuto sociale per fortuna ancora sano e quindi capace di invocare giustizia e pulizia reali. Successivamente e con parole accorate l’autore parla del peso della globalizzazione nel mercato del lavoro e non solo, del potenziale culturale che si va innescando nei cittadini italiani meridionali in seguito al diffondersi rapido ed ormai irreversibile delle comunicazioni globali telematiche e che portano all’esercizio sempre più diretto, con tutti i pro ed i contro, della cosiddetta “democrazia dal basso”, una democrazia cioè meno mediata e dunque meno controllabile. La Rete fa paura. La Rete veicola notizie, veicola assenso, ma anche dissenso e questo è ciò che più teme il sistema. C’è da chiedersi, insomma, quanto il sistema dei partiti, al di là dell’apparato difensivo tenuto su dall’entourage vassallatico, sia distante dal Paese reale che si incontra anche nell’agorà virtuale a descrivere stati d’animo e far rimbalzare notizie, immagini spesso crude, personaggi alla ribalta, ritenuti tali o che tali si credono. C’è una follia collettiva di cui parla il giovane Lo Giudice, che affonda lo sguardo nelle pieghe dell’inconscio collettivo meridionale e questo sguardo lo conduce a individuare il “capro espiatorio” in quella classe politica calabrese messa a suo dire alla gogna, ma dal dolore e dalla miseria dilaganti fattisi troppo acuti e bisognosi di sfogo. Bravo Francesco, sono sicura anch’io come te che non potrà salvarci solo il “ricambio generazionale” sia pure, a mio modesto parere, ormai necessario ed improrogabile, senza cambiare metodi e mentalità; ma ciò che più conta è essere disponibili a quella rivoluzione culturale e passatemi il termine neo-umanistica che parta dall’uomo e dai suoi bisogni reali e concreti, non dai voti o dalle pseudo maggioranze, dagli pseudo schieramenti, dalle pseudo alleanze. Qui ed ora c’è bisogno dei filosofi di platonica memoria, dei cervelli pensanti, delle menti più attive e fervidamente produttive, della rivalutazione delle professioni intellettuali screditate machiavellicamente da un potere che non premia né i meriti, né gli studi. I mali che il giovane Lo Giudice vuole curare in questo Sud, simbolo dei tanti Sud del mondo, sono anzitutto il masochismo di chi è affetto dalla sindrome di Stoccolma collettiva e quindi non sa più distinguere tra vittima e carnefice, anzi finisce per giustificare il suo carnefice e come dice Sergio Romano, citato dallo stesso Lo Giudice, è destinato a diventare a sua volta carnefice. Esiste un rimedio? Senz’altro, ma è di quelli difficili che richiede gesti ardimentosi: come scrive Lo Giudice, occorre rivoluzionare i comportamenti sociali, favorire “un’azione collettiva a carattere culturale e pacifico”, ma che spazzi definitivamente i retaggi negativi del passato e rifondi il senso di una comune appartenenza. Per far ciò, e Lo Giudice lo sa e ce lo dice con forza, occorre ripristinare la sovranità delle leggi. Non tollerare più non dico solo la collusione, che parrebbe cosa scontata, ma la co-dipendenza che ne è l’aspetto collaterale più grave ed imperdonabile. Infatti, se io so, vedo e tollero, come posso pensare di non essere complice? La sovranità della legge, scrive Lo Giudice, è incontrovertibile, il rispetto di questo principio è indice della vera maturità di una democrazia. Mi piace soprattutto di questo libro che F. Lo Giudice strappi la maschera al sistema, ne denunci prevaricazioni, contraddizioni, lassismi e patologie, ma sappia farlo con gli occhi, il cuore e la mente del giusto, cioè di colui che non dispera, che non demorde, che non soccombe e ,pertanto, ammonisce ed invita a non soccombere allo sdegno, al rammarico ed allo sconforto. Da qui il suo appello a fondare una nuova fase della Repubblica, particolarmente evidente nella conclusione del suo saggio, pensato soprattutto per i giovani di questo Paese, per i giovani del Mezzogiorno in particolare. Mi piace concludere con una citazione tratta da questo bel libro di Lo Giudice: “Non è facile essere angeli all’Inferno”. Aggiungo, personalmente, che tuttavia è preferibile essere o amare gli angeli, cioè essere buoni e virtuosi, implacabili nel difendere il Bene e le ragioni dei giusti. Il Buono è anche Utile e Bello. In ciò, in fondo, consiste l’elevazione dell’uomo e la sua emancipazione dalla bestia che è il lui. Onoriamo il Bene, dunque, gettiamo anche noi le maschere del finto perbenismo e dell’ipocrisia sociale, disgustiamoci pure del clientelismo e del familismo amorale, delle abbuffate dei tanti Ciacco che vivono inerti e con il ventre rigonfio e rimbocchiamoci le mani, ma stavolta fino ai gomiti e che la nostra finalità sia quella di estirpare, senza più deroghe o comodi attendismi, le erbacce, i rovi e le piante infestanti, che deturpano quello che un tempo fu per Dante Alighieri “lo giardino dell’Imperio”, cioè l’Italia. Facciamolo, infine senza dimenticarci che proprio dalla nostra Calabria derivò e si tramandò nei secoli il nome che un tempo fu glorioso della nostra penisola, della nostra Italia.

Filomena Minella Bloise
Presidente Accademia Pollineana 

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