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Mi inserisco nel dibattito, finora svolto, sull’attuazione del Piano di riqualificazione e razionalizzazione del sistema sanitario della Regione Calabria per tentare di contribuire alla soluzione delle questioni che l’attuazione dello stesso ha sollevato.

La mia riflessione vuole essere sulle rappresentazioni; in particolare sul fatto che la sanità, più di altri settori sociali, e soprattutto nelle Regioni del Mezzogiorno, venga quasi sempre e più che altro rappresentata in maniera negativa. Fenomeno comprensibile, dal momento che essa tratti il bene più prezioso: la salute, e quindi la vita, delle persone. Ossia, più semplicemente, si parla quasi sempre di sanità per denunciare, giustamente, casi di malasanità o casi di corruzione e truffe da parte di chi  vi opera e si ritrova a gestirla dall’interno, e di chi vi si rivolge come utente-cittadino dall’esterno.  E’ delle ultime settimane la notizia che dei medici ginecologi  abbiano litigato in sala parto all’ospedale di Messina e causato la invalidità permanente ad un bimbo neonato. Fatto gravissimo, esecrabile e da condannare in giusta proporzione per il danno fisico e morale arrecato alla piccola creatura e alla sua famiglia.

Ma mai, o quasi mai, si parla della sanità che cura, che assiste, che accoglie, che previene, che salva vite umane, che guarisce, che lavora.

Bene, si dirà è logico che non se ne parli, perché guarire, curare, assistere è il compito normale delle istituzioni e degli attori della sanità. Il problema, forse, non è poi mica tanto che non si parli della sanità che funzioni, ma che, quando se ne parla, sembra non interessare nessuno. Nessun dossier giornalistico o televisivo si vede da tempo sulle strutture ospedaliere o sanitarie che funzionano. O vogliamo davvero credere che non esistano in Calabria strutture, reparti o istituzioni sanitarie che funzionino?

Ne esistono e come, anche di eccellenza. Ma parlarne è come sprecare il fiato, enfatizzarle è come prendersi un po’ in giro, ritenendolo questo fondamentalmente un modo per fare gli interessi di qualcuno e non di tutti, nella convinzione che il progresso si raggiunga solo e soltanto denunciando ciò che non funzioni, per poterlo superare, una volta e per sempre.

Considerando invece che viviamo in una società fortemente mediata dai mezzi di comunicazione di massa, e che la rappresentazione della realtà influenzi molto la realtà stessa, personalmente credo che il progresso si ri-conquisti e si alimenti anche e soprattutto dando valore e promuovendo le cose che funzionano, per una questione sia di giustizia che di fiducia sociale. Rappresentare le realtà che non funzionano, del resto, significa anche dare ad esse continuamente il palcoscenico, e negarlo a chi, invece, lo meriterebbe davvero.

In questa ottica, mi sembra giusto riportare quanto accaduto nel mese di maggio di quest’anno nel reparto di ginecologia dell’ospedale di Acri, reparto oggi prossimo alla chiusura, per l’attuazione del Piano cosiddetto ‘di rientro’ sopra menzionato.

Una mia parente S.L., di Bisignano, aveva necessità di essere ricoverata e sottoposta ad intervento per disfunzioni ginecologiche e problemi attinenti. Dopo essere stata rifiutata da diverse strutture ospedaliere della provincia viene accolta e riverita nell’ospedale di Acri che, nel giro di due giorni, e con un trattamento professionale e affettuoso da parte del personale infermieristico e sanitario,  decide di sottoporla ad operazione chirurgica. L’operazione è rischiosa. Non solo per la situazione in sé, quanto anche per la obesità e le altre disfunzioni della paziente. Il primario, dott. Pietro Verre, decide comunque di intervenire chirurgicamente e, dopo un’operazione durata ben otto ore, la paziente è stata guarita e messa in condizione di recuperare uno stato di salute accettabile. Ora è a casa e sta bene.

Nel parlare di questo successo sanitario, venni a sapere di un altro caso simile: D.A., di Bisignano, altra madre di famiglia; lei stessa mi racconta la sua storia: nel 2007, dopo un’operazione per un tumore non riuscita in un altro ospedale,  viene salvata sempre ad Acri dalla stessa equipe medico-chirurgica guidata dal dott. Verre.  Anche Lei ora è a casa e sta bene.

Volli andare a congratularmi con il primario chirurgo e con la sua equipe medico-infermieristica, di cui non cito i singoli nomi per non dimenticarne qualcuno e fargli torto. Mi accolsero. Diverse pazienti gravide occupavano le stanze. Pulizia e serenità nel reparto. Il dott. Verre mi spiegò che l’intervento, pur rischioso, era andato bene. Ne era giustamente soddisfatto, ed io con Lui. Iniziammo a parlare della sanità in generale. Mi dimostrò, dati alla mano, che nel punto nascita di Acri il ricorso ai tagli cesarei è molto basso (nel 2009 è stato del 25%) e che si è tradotto in 80 tagli cesarei evitati. Ciò è un ottimo risultato, sconosciuto ai più, un successo professionale, considerando che: è un dato unico in tutta la Calabria, e ben al di sotto della media nazionale, in cui il ricorso medio al taglio cesareo è stimato al 36 % dei parti; il costo di un taglio cesareo è nettamente superiore rispetto al parto vaginale e l’evenienza di mortalità della madre in caso di taglio cesareo è da 2 a 7 volte superiore rispetto al parto vaginale; infine, le evidenze disponibili mostrano che il parto naturale è più vantaggioso a breve e lungo termine sia per la madre che per il neonato.

Questa è buona sanità. Questa è la Calabria che funziona. Ma questo nessuno l’ha detto, o se qualcuno l’abbia detto, le sue parole sono state inghiottite dalla rappresentazione negativa della sanità come campo di battaglia, come teatro d’affari,  come luogo di morte piuttosto che di vita, e la sua testimonianza non è arrivata all’opinione pubblica ed istituzionale, il suo messaggio non ha fatto breccia. Se ad Acri fosse morta una donna al parto, (cosa naturalmente da scongiurare con tutte le strategie di cui siamo capaci) tutti ne avrebbero parlato. Si sarebbe detto, come si è detto più volte, che i piccoli ospedali andrebbero chiusi, che sono pericolosi e troppo costosi.

E’ più facile, del resto (e da noi al Sud è abitudine assai diffusa) additare presunti colpevoli e scaricare su di essi le colpe del malfunzionamento generale. Siamo bravi e pronti a condannare chi sbaglia; meno predisposti e meno bravi, invece, a dare valore e coraggio a chi opera virtuosamente nei nostri territori, a chi resiste alla corrente del disfattismo generale, o addirittura vi nuota in direzione contraria.

 

Se, infatti, in questi piccoli ospedali di montagna si sperimenta ottima sanità, si opera virtuosamente, ciò non fa notizia ed essi, anziché essere valorizzati, promossi ed assunti ad esempio per gli altri presìdi sanitari, vengono mortificati e chiusi per rispondere ad un’esigenza impulsiva e propagandistica di razionalizzare il sistema sanitario.

E’ così che va oggi l’Italia, è così, del resto, che funzionano i Paesi corrotti: si va avanti convivendo a fatica tra inefficienze ed ingiustizie, a scapito soprattutto di chi agisce bene, finché non se ne può più, ed arriva qualcuno, soprattutto in tempi di crisi, che promette di risanare tutto e subito, finendo spesso con il fare più danni di quanti ne sia stato eletto a risolverne.

Ecco perché è un problema di rappresentazione perché – come recita un saggio proverbio – ‘fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce’, e spesso, nell’impeto di potare i rami secchi ed evitare che altri alberi cadino, si finisce col tagliare i rami portano germogli e frutti.

Per queste ragioni sono contrario alla chiusura del reparto di ginecologia ed ostetricia dell’ospedale di Acri, perché ritengo dannose le soluzioni impulsive, indiscriminate, che hanno come obiettivo più quello di saziare una sete improvvisa ed improvvida di giustizia, che evitare l’insorgere di nuove inefficienze ed avviare un corretto funzionamento del sistema. E’ più facile, del resto, sciogliere i nodi contorti con la spada, piuttosto che farlo con pazienza e perizia, ma non sempre, anzi quasi mai, le soluzioni più facili si rivelano essere quelle migliori.

di Francesco Lo Giudice
01 dicembre 2010

 

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